In replica all’imputato Paolo Pollichieni ed al suo alfiere Agostino Pantano

Avendo dovuto trascorrere in assoluta solitudine queste festività pasquali, ho potuto meditare e ragionare a lungo circa gli ultimi fatti, e ho deciso che è bene e necessario rompere il silenzio che mi ero imposto in ossequioso rispetto delle autorità e delle indagini in corso, e puntualizzare alcune cose molto importanti. Per spiegare, ma anche per mettere a tacere le malelingue e gli sciacalli.
L’occasione mi è data da una signora che mi ha scritto – magari in buona fede – dopo aver letto lo “speciale” pubblicato nell’ultimo numero del “Corriere della Calabria”, discutibile settimanale calabrese diretto dal famoso giornalista/dossierista/lobbysta Paolo Pollichieni.
Un settimanale diretto da un signore (da me già querelato anche per altri fatti passati e per quelle diffamazioni e per tali reati in atto imputato presso il Tribunale di Cosenza, repetita iuvant) che in barba ai codici deontologici ed anche alle leggi penali e civili, ha avviato di recente una scellerata campagna di odio e delegittimazione contro di me. Ed i motivi, come ho già scritto, sono ben individuabili nel tempo e nello spazio.

Capisco l’entità del regalo che faccio al Pollichieni in questo modo, dando a lui anche troppo spazio su questo umile blog, che lui segue con affetto e che conta di certo molti piú lettori del suo giornale. Ma purtroppo la spregiudicatezza di questo individuo non mi lascia altra scelta.

Ma per ricostruire bene tutto quanto accaduto finora é bene andare per ordine.

 

EPISODIO 1: LO “SCOOP”
17 febbraio 2012. Il settimanale di Pollichieni (dico “di” perché Pollichieni non è solo il direttore ma anche il proprietario) pubblica e rilancia in prima pagina uno “scoop”, dal titolo “La residenza di Pecora? Nella casa del boss“, a firma di Agostino Pantano.
Sì, quello stesso Pantano già censito dall’Osservatorio “Ossigeno per l’Informazione” tra i cronisti minacciati. Non so se l’Osservatorio diretto da Alberto Spampinato sia però al corrente anche del fatto che – a quanto sarebbe stato accertato dalle indagini di polizia – lo pneumatico del povero giornalista di San Ferdinando sarebbe rimasto vittima di un chiodo (magari un chiodo pregiudicato e lasciato ad attenderlo in mezzo alla strada dalla ‘ndrangheta) e non invece di un punteruolo probabilmente conficcatogli dolosamente in segno di sfregio. E un altro episodio riguardante il Pantano è raccontato anche dal bravo collega Walter Molino nel libro “Taci, infame”: <<[…] in ambienti investigativi neppure troppo a mezza voce, si racconta un’altra storia: che siano state le forze dell’ordine a non trovare alcun rielievo minatorio in una testa di pesce sul parabrezza. Forse, fosse stato un pesce spada ma pare si trattasse di sardine. Magari è per questo che non c’è una denuncia[…]>>.

Circa l’articolo su citato, nella sua ampia ricostruzione il Pantano presentava quella che invero era la notizia – il sequestro di alcuni immobili al clan Longo di Polistena effettuato in data 07/02/2012 – come marginale, perché lo “scoop” era che, appunto a quanto da lui accertato, in uno di quegli immobili risultasse posta la mia residenza anagrafica.
In proposito ritengo utile specificare che la mia famiglia vive in affitto in un appartamento di quel palazzo sin dal 1998 (avevo dodici anni quando traslocammo lì) mentre, com’è noto, io dal 2004 (cioé da quando avevo diciotto anni) vivo a Roma (prima per motivi di studio ed ora lavorativi in quanto dal 2009 collaboro con Rai Educational).
Certo, secondo il Pantano ed il suo giornale forse dovrei provare un qualche imbarazzo (essendo io il fondatore e presidente di “Ammazzateci Tutti”) a risiedere anagraficamente in un immobile che da alcune settimane è stato sottoposto a sequestro giudiziario perché risultato riconducibile nella proprietà alla locale ‘ndrina, ma è altrettanto notorio che questa palazzina non è mai stata precedentemente sottoposta ad alcun provvedimento di sequestro, neanche parziale. E mi pare che la famiglia Longo sia nota alla giustizia ed alle cronache da decenni, e non da qualche mese.
Detto ciò, non posso non costatare la tempestività del Pantano, il quale non più di una settimana dopo che la stampa ha appreso del sequestro della palazzina, questi era già a conoscenza che lì vi “risiedesse” il sottoscritto.
Il Pantano ed il Corriere della Calabria sbattono il mostro in prima pagina senza alcun diritto di replica. Il giusto dovere di cronaca, infatti, imporrebbe un pezzo limitato al sequestro dell’immobile, magari citando anche il fatto che, secondo le sue fonti (questo é un passaggio molto importante, perché non so come questa notizia sia arrivata al nostro eroe), tra gli altri inquilini vi sarebbe anche la mia famiglia d’origine. Ma per rispondere pienamente ai doveri etici e professionali – una volta venuto a conoscenza dello “scoop”- sarebbe stato utile se non necessario sentire in merito anche il sottoscritto, non solo in quanto <<grande personaggio>> (come il Corriere stesso mi definisce), ma soprattutto in qualità di collega.
Pantano, invece, é andato ben oltre, abiurando ad ogni deontologia della professione giornalistica nonché della ragionevolezza umana che si imporrebbe nel trattare un caso del genere, ed ha deliberatamente esposto me e la mia famiglia a rischi inimmaginabili.
Nel corpo dell’articolo, infatti, pubblicava senza alcuna autorizzazione:
1. Una mia fotografia, ponendovi tendenziosamente accanto una foto segnaletica del sig. Longo Vincenzo, presunto capo della omonima famiglia di Polistena oggetto della cd. “Operazione Scacco Matto” ed altre, in atto detenuto in regime di 41-bis; ma che io neanche conosca di vista, per mille ovvi motivi, Longo Vincenzo, né sia da lui conosciuto, con amplissima facoltà di prova contraria, non ha minimamente turbato Pantano ed il suo misterioso ed evidentemente forzato disegno criminale.
2. La fotografia “storica” dello striscione che ha dato origine al movimento “Ammazzateci tutti”, ma che il movimento antimafia “Ammazzateci tutti” non c’entri niente con questo articolo non turba minimamente il Pantano e la sua furia diffamatoria, mettendo nel mirino della sua “macchina del fango” anche il generoso e meritevole di rispetto movimento dei ragazzi antimafia che tanto riscatto ha dato alla Calabria, espandendosi ed essendo oggi presente in tutta Italia;
3. Una foto del palazzo in cui esiste l’appartamento in affitto in cui risiede la mia famiglia (unitamente ad altri 15 inquilini privati o professionali, di cui Pantano non fa assolutamente menzione), foto peraltro risalente non all’epoca attuale, ma verosimilmente al periodo delle scorse Elezioni Provinciali di Reggio Calabria (aprile-maggio 2011), come si può evincere dai manifesti elettorali visibili in basso a destra nella foto e dalla presenza di un negozio che da tempo ha chiuso;
4. Una foto del citofono del palazzo in cui abita la mia famiglia (effettuata a distanza ravvicinatissima), che di per sé già prova la violazione del domicilio familiare, ma che è altresì prova della tendenziosità e della malafede dell’articolista, in quanto vengono adeguatamente oscurati tutti gli altri nomi posti sui citofoni meno che quello della mia famiglia, che evidentemente a giudizio del Pantano non ha, stranamente, pari diritto alla privacy rispetto alle altre famiglie (sul citofono infatti non c’era il mio nome e cognome, ma tanto non è bastato al diffamatore per fermarlo, ed il cognome dei miei genitori è stato parimenti usato per il sempre più evidente e preoccupantemente spregiudicato disegno diffamatorio del Pantano). Altra “stranezza” da rilevare: il Pantano trova sullo stesso citofono due volte il cognome “Pecora”, ma curiosamente indovina quale fosse quello riferito alla mia famiglia e quale invece ad altri parenti, quest’ultimo opportunamente oscurato.

Per tutti questi gravissimi fatti posti in essere dal Pantano, essendo io – tra l’altro – giornalista pubblicista, mi sono immediatamente appellato alla cosiddetta “giustizia interna” e quindi ho chiesto formalmente tutela al mio Ordine ed al mio Sindacato, oltre che ovviamente aver dato ampio mandato ai miei legali di tutelarmi in tutte le sedi civili e penali.
Si attendono cortesi quanto più auspicabili riscontri.

 

EPISODIO 2: LE MINACCE E I FINTI GIORNALISTI SOTTO CASA
Purtroppo nei giorni immediatamente successivi alla pubblicazione dell’articolo sono accaduti altri due eventi rilevanti.
Il 20 febbraio 2012, mentre mi trovavo in Calabria per impegni già noti, ovvero l’intitolazione dell’Aula bunker del tribunale di Palmi (RC) al giudice Antonino Scopelliti (del cui delitto irrisolto mi ero occupato nel libro-inchiesta “Primo sangue”) ho ritrovato sulla maniglia della mia macchina un biglietto contenente gravi minacce di morte (vicino l’auto i Carabinieri hanno anche rinvenuto alcuni proiettili esplosi).
Vorrei essere io il primo a credere che queste minacce non siano in qualche misura collegate all’articolo del Corriere della Calabria, ma così purtroppo non parrebbe perché oltre a dirmi che il giudice Scopelliti mi aspetta a braccia aperte (minacciando anche due magistrati antimafia reggini, Gratteri e Creazzo), l’anonimo autore delle minacce fa esplicito riferimento anche ad un certo “Pantano” (“che bella foto ti ha fatto Pantano”).

22 febbraio 2012. Sempre a Cinquefrondi, solo due giorni più tardi l’accaduto, intorno alle 19.30 della sera, non appena parcheggiata la macchina di mia madre e sceso dall’autovettura notavo due sconosciuti uscire improvvisamente via dalla loro auto e correre verso di me (importante segnalare che la loro macchina era parcheggiata col motore acceso davanti al portone di casa della mia famiglia).
Come ho detto ai Carabinieri nonché in diverse occasioni pubbliche (cito, su tutte, il mio intervento il 12 marzo all’Università di Chieti in presenza dell’On. Angela Napoli e del senatore Giuseppe Lumia), nell’immediato ho temuto il peggio, fino a quando “fortunatamente” non ho visto piantarmi in faccia la luce accecante del faro di una telecamera ed un microfono (attrezzature non amatoriali ma certamente professionali e dal valore di diverse migliaia di euro).
Ho cercato invano di chiedere loro chi fossero, se fossero giornalisti e per chi lavorassero.
Avendo a che fare con due sconosciuti che – magari anche sorridendomi – avrebbero potuto farmi del male (chi li conosceva?!), ho deciso di mantenere i nervi ben saldi, cercando IO, PER OVVIE RAGIONI, di instaurare con loro un minimo di “complicità” e spiegando all’”intervistatore” (che si scoprirà non essere giornalista) che non c’era alcun motivo di fare un “blitz” e che avrei risposto ad ogni domanda se mi avesse prima contattato (presentandosi con nome e cognome nonché nome della testata e/o della tv per cui lavorava) per rilasciare l’intervista in maniera pacifica e tranquilla. Come ho sempre fatto con tutti.
Invece no, questi insisteva e diceva di voler “intervistare il paladino della legalità che vive nella casa del boss”. Chiaro, dunque, anche in questo caso il riferimento all’articolo del Pantano.
Dopo l’intervento dei Carabinieri il finto giornalista e il suo collaboratore (mai citato, stranamente, dal Pantano) saranno trattenuti in Caserma e gli verranno sequestrati il nastro e tutte le apparecchiature (compresa una penna con videocamera-spia nascosta, e non una semplice <<pen-drive>> come hanno fatto mettere a verbale, scovatagli dopo essere stati perquisiti).

 

EPISODIO 3: IL NUOVO “SCOOP” DI POLLICHIENI E PANTANO. “ERA TUTTA UNA BURLA!”
6 aprile 2012. Il Corriere della Calabria dedica copertina e ben dieci pagine interne a “L’Antimafia in commedia”.
Un editoriale del direttore ed uno lungo speciale sempre a firma del solito Agostino Pantano (quello della minacciosa testa di sardina e del chiodo pregiudicato) con tanto di fotogrammi tratti dal nastro dell’”intervista”, che nel frattempo il 29 marzo (apprendo dalle loro stesse pagine) era stato dissequestrato dalla Procura della Repubblica di Palmi (RC) e restituito al proprietario.
Infatti, guardate un po’, a chi è stato fatto arrivare subito il video dissequestrato? Domanda retorica: al Corriere della Calabria.
Inutile constatare nuovamente, anche in questo caso, la strana tempestività con la quale si muovono i signori Pollichieni e Pantano. E l’ancor più strana stretta, strettissima collaborazione, con “quel burlone” del sig. Michele Macrì, ovvero colui il quale aveva fatto oltre 50 chilometri, per venire da Gioiosa Ionica, Bovalino, Siderno, Locri (questo ancora non l’abbiamo capito) ad  aspettarmi fino a tarda sera sotto casa della mia famiglia. A questo piccolo particolare, però, Pantano e Pollichieni non fanno alcun cenno.
E qual’è la tesi dei nostri eroi? Che quella di quella sera non era un’aggressione, ma una simpatica chiaccherata.
Macrì sarà contento, certamente sarà uno dei tanti che dovrà risarcirmi in Tribunale per quanto ha fatto, e magari dovrà rispondere anche di esercizio abusivo della professione giornalistica, ma è stato “adottato” ed osannato da due giornalisti professionisti di primo piano, e certamente si sarà procurato un po’ di gloria (bella quella foto in posa messa in copertina, dove sorride, il nostro eroe).

Ma torniamo nel merito della coraggiosissima inchiesta del Pantano.
Nessun cenno – in quelle dieci (diconsi d-i-e-c-i) pagine – ai miei ripetuti, cortesi, inviti a farmi dire da quei simpatici signori chi fossero e per chi lavorassero.
Nessun cenno al fatto che il “cameraman” (che aveva il capo totalmente coperto da un cappello di lana ed una sciarpona intorno al collo tirata fin sulla bocca) per diversi minuti si era piazzato praticamente davanti al portone del palazzo, impedendomi di fatto di citofonare.
E nessun cenno al fatto che detto “cameraman” (cui, ripeto, il Corriere della Calabria stranamente non fa mai cenno) è stato portato in caserma per l’identificazione perché privo di documenti di riconoscimento.
Ed ovviamente, inutile dirlo, del mio e nostro più che comprensibile stato di preoccupazione derivante delle minacce giuntemi soli due giorni prima non se ne fa più cenno. Mandiamo tutto in vacca, come si dice!


CONCLUSIONI (PER ORA)

Perché tutte queste attenzioni ad Aldo Pecora a scapito di altri fatti ben più importanti (come il ciclone scatenato dalle indagini su Belsito ed i suoi presunti rapporti con la ‘ndrangheta, ad esempio, giusto per citare un importante fatto al quale sarebbe stato opportuno dedicare uno spiegamento di forze almeno pari a quanto generosamente fatto con me)?
A mio avviso, il gioco che adesso stanno disperatamente tendando di mettere in atto il Pollichieni ed il suo prode alfiere Pantano è questo:
1. Innanzitutto lorsignori sanno che pubblicando deliberatamente l’indirizzo di casa della mia famiglia (con tanto di numero civico e fotografie del palazzo e del citofono!!!) hanno violato non di poco le vigenti leggi a tutela della privacy non solo mia, ma SOPRATTUTTO, della mia famiglia.
Quindi, probabilmente su consiglio dei loro legali, ora tentano in maniera avventata di riparare ai loro danni e costruire a tavolino ben due “leader”! Poiché qualora nel mio caso un giudice potrebbe considerarmi “personaggio pubblico” (come per i politici di fama nazionale, ma sarebbe gravissimo in quanto data la mia situazione il venir meno del diritto alla riservatezza potrebbe risultare fatale), stessa cosa non varrebbe per mio padre ed i membri della mia famiglia, che sono privati cittadini.

2. Vogliono ridurre la gravità dei fatti, sviare le attenzioni di opinione pubblica ed inquirenti dal fatto che certamente a causa della pubblicazione dell’indirizzo, oramai la nostra serenità e la nostra sicurezza sono drammaticamente compromesse (tant’é che io da oltre un mese non sto più scendendo in Calabria), e che quindi la Giustizia di questo dovrà tener conto, e che loro – Pollichieni e Pantano – dovranno ampiamente risarcire ogni danno cagionatoci.

3. Vorrebbero far credere che io abbia approfittato di una situazione apparentemente “tranquilla” (e per farvelo credere, hanno guarda caso scelto fotogrammi dove io, mio padre e mio fratello Alessandro sembriamo anche sorridenti) chissà per quali secondi fini, magari per farmi pubblicità.

Una trovata pubblicitaria alla quale, é implicito, allora si sarebbero prestati anche i due carabinieri che sono intervenuti chiedendo al Macrì ed al suo collaboratore di seguirli in Caserma, il Comandante della Stazione di Cinquefrondi che ha chiesto la perquisizione dei due, rinvenendo anche una seconda telecamera, nascosta, ed addirittura anche il magistrato che ha convalidato il sequestro. Perbacco!
Complici inconsapevoli, dunque, ma anche vittime ignare, soprattutto. Perché il subdolo tentativo di Pollichieni&Co. ora é tirare in ballo don Luigi Ciotti, Nando dalla Chiesa, Maria Falcone, Ferdinando Imposimato, Pino Masciari, Michele Cucuzza, Rosanna Scopelliti e don Luigi Merola, ovvero gli esponenti de <<l’antimafia nazionale>> (come li definisce il Corriere della Calabria), e tutti quelli che stanno sottoscrivendo il loro appello “Siamo tutti Aldo Pecora“, i quali in buona fede sarebbero tutti vittime di una bufala.  Anche qui, come se non bastasse, rigirano la frittata e, strumentalizzando non solo i miei guai ma anche chi mi é stato vicino, cercano di far passare il messaggio che a strumentalizzare tutto e tutti sia stato quel farabutto di Aldo Pecora! Metodo Pollichieni, collaudato.

Questo è quanto. E non avrei voluto e dovuto affidare alla rete questa mia “replica” (che certamente il Corriere della Calabria non pubblicherà mai), perché credo che i processi vadano fatti in tribunale e non sui giornali. Per una volta, peró, sono stato costretto a fare diversamente da quanto predico e pratico, perché “non si sa mai”. A futura memoria.

Il giornalista/dossierista/lobbysta Paolo Pollichieni non è nuovo a queste sortite, è il suo modus operandi da sempre. Basta vedere come ha gestito nei mesi scorsi la vicenda Cisterna e, prima ancora l’indagine “Why not” e quelle seguenti al delitto Fortugno.
Pollichieni è evidentemente abituato a fare così. Lui è tutto e tutto può: investigatore, avvocato di parte, pubblico ministero, giudice, boia.
Piaccia o no, io, noi, siamo orgogliosamente diversi da lui. Rispettiamo le istituzioni e le indagini, e perciò tutte le nostre ragioni saranno fatte valere nelle opportune sedi dai nostri rispettivi legali.

Di tutta questa faccenda una cosa è certa, ed io l’ho comunque capita da un pezzo: quando sono in Calabria chiunque, ed in qualunque momento, può raggiungermi ed attendermi sotto casa dei miei. Che sia con un una telecamera o con una pistola fa poca differenza. Spero che questo convincimento sia al più presto fatto proprio anche da chi dovrebbe garantirmi le condizioni minime di sicurezza.
Quanto al Corriere della Calabria, sono certo che quandanche dovessero vedere il sangue di Aldo Pecora per strada scriveranno che é tutto uno scherzo, una nuova trovata pubblicitaria.

Roma, lì 9 aprile 2012

Aldo Vincenzo Pecora

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