Trent’anni fa l’attentato al “treno di Natale”, la Strage del Rapido 904

Pubblichiamo lo speciale dell’Adnkronos che ripercorre i momenti drammatici del 23 dicembre 1984 ed il successivo iter giudiziario tra mafia e terrorismo

Sono passati trent’anni dalla strage del treno rapido 904 del 23 dicembre 1984. L’attentato dinamitardo portò via la vita a 16 persone e la cambiò per sempre a molte altre: 267 i feriti, tanti i morti a distanza di anni per le conseguenze del trauma. Udienze e anni di processi per cinque pronunce dei tribunali. Due ergastoli, e ancora tante zone d’ombra.

E’ il 23 dicembre 1984. Mancano due giorni a Natale. E’ mezzogiorno in punto all’orologio della stazione di Napoli. La voce dell’altoparlante annuncia: il treno Rapido 904 è in partenza dal binario 11. La folla si accalca alle porte dei vagoni. Le carrozze sono stracolme di gente. Tutti occupati i sedili. Gli scompartimenti invasi, i corridoi sommersi dalle valigie, fin quasi dentro i bagni. Non si riescono neppure a contare. Ci sono i sacchetti dei regali impacchettati. Ci sono i bambini. Ci sono grandi scatole di cartone, salumi e pane buono del Sud. Quello fatto in casa. E c’è, soprattutto, l’ansia di arrivare, di incontrare i parenti partiti, quelli che per lavoro, per fame, da Napoli sono andati a lavorare al Nord. Quelli che si incontrano solo una volta l’anno. Antonio Cercola ha 22 anni. Suo fratello, Francesco, vive a Milano. Sua sorella, invece, è a Parigi. Lui, con la mamma, Rosaria, e il padre, Giovanni, occupa un sedile nel vagone 10. Sui due sedili di fronte, i suoi genitori. Di strada ne hanno tanta da fare in pochi giorni. Per Natale a Milano, poi partiranno per la Francia. E’ un viaggio che hanno in programma da tempo.

Quel convoglio pesante di gente, di vite, corre lungo la tratta Napoli-Milano. Chi legge, chi dorme, chi guarda fuori dai finestrini appannati. Il Rapido 904 è carico come un mulo. Di chilometri ne ha macinati tanti prima di questa sera. Alla Stazione di Firenze qualcuno scende, altri salgono. Un uomo sulla quarantina ha in mano una grande valigia. Sale di fretta sul vagone 10. La lascia lì. E va via. Nessuno lo nota, mentre sul vagone 9 salgono Pierluigi Leoni e Valeria, la sua fidanzatina. Hanno appena 18 anni, stanno insieme da qualche tempo. Sono diretti a Milano per le vacanze. Le prime da quando hanno finito la scuola.

Sono le 18.35 e il treno porta un lieve ritardo. Lo dice il capoconvoglio al microfono. Una ventina di minuti, non di più. Normale amministrazione, pensano i passeggeri. Per una tratta così lunga, un piccolo intoppo è la routine. Il tempo scorre lentamente, mentre il treno percorre gli ottanta chilometri tra Firenze e Bologna. Lascia la stazione di Santa Maria Novella, sfiora Prato con i capannoni del tessile. Taglia a metà le colline toscane. Verdi e buie. Fa freddo. E ne farà sempre di più ora che quel convoglio ha iniziato la sua salita lungo le creste del tratto appenninico. E’ stanco, carico. In alcuni scompartimenti le luci sono spente. Gli altri passeggeri provano a tenere bassa la voce. Il sole è tramontato già da tre ore, e c’è chi vuole dormire, mentre i bambini piangono.

Il Rapido 904 continua a correre. Vuole recuperare il ritardo. Alle 18,55 imbocca la galleria tra Vernio e San Benedetto Val Di Sambro, diciotto chilometri, la più lunga d’Italia. Dentro quella gola lungo la montagna il buio è intermittente. Ogni 50 metri le luci fotoelettriche abbagliano i visi dei passeggeri. La galleria sembra non finire mai, il rumore è assordante. Antonio Cercola si alza a fumare una sigaretta. Guarda fuori dal finestrino.

Un convoglio sventrato del treno Rapido 904Le 19.08. Un colpo sordo corre lungo tutto il convoglio. Un vento caldo, sempre più denso, rovente, investe i vagoni. Uno squarcio tra le lamiere ha aperto il ventre del treno. Esattamente a metà. Fumo, fuoco, ressa. E sangue. E’ il caos, la gente rompe i vetri dei finestrini. Topi in gabbia. Intorno è il buio assoluto, tagliato solo dalle alte vampate delle fiamme. Cercando una via d’uscita la folla impazzita travolge tutto quello che gli finisce tra i piedi. Valigie, scatole, borse, persone. Inizia a correre lungo la galleria. Non sa neppure da che parte andare, ma corre. Disperata. Non è importante dove. L’importante è che sia lontano da lì. Qualcuno riesce a uscire dal tunnel e, in preda al panico, si inerpica su per la collina alle porte di San Benedetto. Lì, almeno, c’è silenzio. Pianti disperati ovunque. Dentro il treno rimangono in quindici. Quindici corpi a pezzi. Irriconoscibili, arsi dalle fiamme.

Antonio è sommerso dal ferro caldo delle lamiere. La terra gli è entrata in bocca, su dentro il naso. Non riesce a muoversi. Non riesce a respirare. E rimane lì per molto tempo ancora, fino a quando i soccorritori non riescono a sgombrare la galleria, e arrivare al vagone esploso. Passa un’ora, forse di più. Lui, dice, non riesce a ricordare nulla. Non sa dove si trova quando riapre gli occhi all’ospedale Maggiore di Bologna. Non sa chi è, e non lo sa nessuno. Al pronto soccorso è arrivato come ”ferito numero 1”. Il primo di una lista che conta oltre 300 nomi. Ha il 65% del corpo ustionato. Ulcere su tutta la pelle. Ha un edema polmonare. E’ gravissimo. I medici non sanno se riuscirà a farcela. Suo cognato, a Parigi, il giorno dopo la strage, compra un quotidiano. In prima pagina, su una barella, c’è il viso sfigurato di Antonio. Sua sorella non sa ancora nulla. Il marito nasconde quelle pagine. Giovanni, il padre, morirà di lì a poco, per il trauma riportato. E’ anziano e non ì riuscito a sopravvivere al colpo. Ma il nesso di causalità tra la sua morte e l’attentato, non è mai stato riconosciuto. Non è il solo. Il giorno dopo la strage, un vigile del fuoco, che ha lavorato tutta la notte in quella galleria, non regge allo shock. Era stato a Bologna, alla strage della stazione, a portare via i cadaveri. A spegnere gli ultimi focolari. Dieci anni prima, in quella stessa galleria, aveva assistito all’ eccidio dell’Italicus. Scriverà una lettera ai familiari, prima di farla finita. Venti anni dopo, Antonio è ancora alle prese con le conseguenze dell’incidente.

Il boss di Cosa Nostra Pippo CalòIl boss di Cosa Nostra Pippo Calò

Il boss di Cosa Nostra Pippo Calò

Passa un anno intero da quella notte, per vedere il primo intervento della giustizia. E’ il 9 gennaio 1986, quando l’allora pubblico ministero Pierluigi Vigna, firma una serie di ordini di cattura, contro il cassiere di Cosa Nostra, Pippo Calò, ma anche contro Giuseppe Misso, boss del rione Sanita’ di Napoli. Nell’ordinanza di rinvio a giudizio, i giudici di Firenze scrivono che la strage sul Rapido 904 sarebbe stata suggerita ”con lo scopo pratico di distogliere l’attenzione degli apparati istituzionali dalla lotta alle centrali emergenti della criminalità organizzata che in quel tempo subiva la decisiva offensiva di polizia e magistratura per rilanciare l’immagine del terrorismo come l’unico, reale nemico contro il quale occorreva accentrare ogni impegno di lotta dello Stato”.

L’iter giudiziario è complesso e si scontra con una serie di punti irrisolti, sui quali, a distanza di anni, non si riesce a fare chiarezza. Nell’ultima sentenza, quella definitiva, che condanna all’ergastolo Pippo Calò e il suo braccio destro, Guido Cercola, i giudici scrivono che c’è un’alleanza stretta tra settori di Cosa nostra e della Camorra napoletana, alla base dell’eccidio sul Rapido 904. Ma esistono ancora zone grigie e altre ancora più buie, quelle che portano ai mandanti della strage di Natale. Neppure cinque processi hanno saputo spiegare la motivazione reale e profonda di quell’eccidio. Perché un gruppo di criminali mafiosi decide di mettere una bomba su di un treno? Qual è il loro progetto? Perché la criminalità organizzata sceglie una strada chiaramente eversiva? Una azione ‘anomala’, spiegano le migliaia di pagine delle motivazioni delle sentenze.

Nel 1984 qualcosa si rompe nell’equilibrio tra mafia e politica. I magistrati siciliani battono a tappeto il palermitano. Inizia la vera lotta alla mafia. I boss hanno le mani legate, non riescono a muoversi con la libertà che gli era tacitamente riconosciuta fino solo a qualche tempo prima. L’era degli attentati terroristici è finita, pensano, e gli inquirenti possono concentrarsi nella guerra alle associazioni malavitose.

Ecco il movente, ricostruito nelle pagine della sentenza, ”l’organizzazione mafiosa dovette compiere un gesto clamoroso e gravissimo al fine di distogliere momentaneamente da essa l’impegno repressivo ed investigativo dello Stato”.

Lo dice la pronuncia della Corte di Appello di Firenze del 14.3.1992 passata in giudicato. Cosa nostra, insomma, ha affidato a quella bomba un messaggio depistante, rivolto anche allo Stato. E’ come se dicesse: ”la stagione degli attentati non è finita, non vi illudete che possiate tornare a prendervela con noi, allentate la tensione e vedrete che la situazione tornerà tranquilla”.

Lo confermerà qualche anno dopo persino Tommaso Buscetta, il primo pentito che ha gettato luce su un mondo che fino ad allora era rimasto sommerso. Dopo il sangue, il terrore, il vuoto, i familiari delle vittime hanno affrontato la vicenda processuale. In primo e in secondo grado la magistratura, in base alle risultanze raccolte dagli inquirenti, condanna all’ergastolo Pippo Calò ed i suoi uomini per l’esecuzione materiale del reato di strage, mentre un’accertata fattiva collaborazione di elementi di spicco della camorra quali Giuseppe Misso, porta nei suoi confronti, ed in quelli dei suoi uomini, a pesanti condanne detentive, ma per reati diversi, che vanno dalla detenzione di esplosivo all’associazione mafiosa con l’aggravante dell’eversione.

La Cassazione ribalta queste decisioni ignorando tutto il castello accusatorio sostenuto dalle prove raccolte dagli inquirenti e per mano di Corrado Carnevale annulla la sentenza nei confronti di Calò e Misso rinviando il giudizio ad altra sezione della Corte di Assise di Appello di Firenze (il sostituto procuratore Antonino Scopelliti, titolare della pubblica accusa in Cassazione, aveva chiesto la conferma delle condanne. NdR).

E’ nel Tribunale fiorentino che si riforma parzialmente la sentenza. I giudici condannano per strage Calò, ma assolvono Misso condannandolo solo per detenzione abusiva di esplosivo e riducendone la pena a soli tre anni. Alla fine di questo giudizio di rinvio, due figure chiave del processo, Galeota, braccio destro di Misso, e sua moglie, sono uccisi in un agguato. In un secondo giudizio di rinvio, a seguito di stralcio, un deputato missino, Massimo Abbatangelo, già condannato in primo grado per strage alla pena dell’ergastolo, viene assolto da tale accusa per non aver commesso il fatto, e condannato per porto e detenzione abusiva di esplosivi. La Corte di Cassazione rigetta, successivamente, i ricorsi proposti dai familiari delle vittime contro la sentenza di secondo grado nei confronti di Abbatangelo, e li condanna, tra le proteste, al pagamento delle spese processuali. Ma sono altri i punti oscuri della vicenda. E sono moltissimi.

La Commissione parlamentare Stragi, presieduta dal senatore Gualtieri, nel 1994 evidenzia un ”chiaro contesto in cui sono maturate le azioni terroristiche riportabili alla strategia della tensione, senza riuscire in alcuni casi, come questo del Rapido 904, ad individuare un più ampio ambito di responsabilità, avvertendo che restano non pienamente chiariti i contesti diversi e i più ampi disegni strategici cui le stragi sono state funzionali”.

Il lavoro della Commissione Parlamentare punta il dito sulla distrazione e sull’assenza dei servizi Sismi e Sisde che avrebbero dovuto cogliere e segnalare ogni attività di tipo terroristico; sottolinea la possibilità della ”reiterazione di atti criminali alla scopo di turbare e condizionare lo svolgimento della vita democratica del Paese”. Ma non scioglie i dubbi che vanno a formare le zone d’ombra di questa vicenda. Per esempio, l’esplosivo. Una impronta digitale sulla scena di un crimine per i tecnici della scientifica. Tritolo miscelato ad altre sostanze. Un mix che, nell’esplosione, provoca fiammate dalle temperature elevatissime.

Una sostanza penetrante, devastante, che uccide anche attraverso le inalazioni. ”Lo stesso materiale, la stessa composizione delle bombe trovate nei misteriosi depositi attribuiti alla Gladio – dice il presidente dell’associazione vittime della strage del treno 904, Antonio Calabrò – perché nessuno ne ha mai fatto parola?”. Il 31 dicembre 2004, a Sulmona viene trovato impiccato Guido Cercola, 60 anni, che si era ucciso utilizzando i lacci delle scarpe. Nel novembre del 1992, Cercola era stato condannato all’ergastolo per l’attentato del 23 dicembre 1984 al rapido 904. L’uomo era stato accusato di aver aiutato il presunto cassiere della mafia, Pippo Calò, ad organizzare l’eccidio.

Totò Riina in aula

Il “capo dei capi” Totò Riina

Il 13 maggio 2014 si è aperto nell’aula bunker del Tribunale di Firenze il processo contro Totò Riina, accusato di essere il mandante della strage. Durante la seconda udienza è emerso dalla deposizione del consulente tecnico dell’accusa Giulio Vadalà che nella strage furono usati “16 chili di esplosivo globali”, con molta probabilità provenienti dal deposito di armi ed esplosivi di Cosa Nostra che si trovava a San Giuseppe Jato, poi usato per gli attentati mafiosi del 1992 e ’93. Si terrà il 13 gennaio la terza udienza del processo. In quella data sarà interrogato il pentito Giovanni Brusca. Le successive udienze sono state fissate per il 20 e 27 gennaio.

Adnkronos

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