Perché non possiamo consegnarci allo sconforto e alla rassegnazione

E adesso trasferiteci tuttiPubblichiamo due scritti che traggono spunto dalle vicende di attualità di questi giorni. Uno di Stefano Racheli e l’altro di Andrea Falcetta.
Certo quello che, in una escalation sorprendente, accade di questi tempi induce tanti allo scoramento e al pessimismo. Lo scritto di Andrea ne porta i segni. Noi crediamo, però, che un sano realismo (e, dunque, una consapevolezza dolorosa, che fa sanguinare l’anima) sia ragionevole e saggio. Ma non lo scoraggiamento e la resa.
“Rimaneggiando” riflessioni scritte proprio da Stefano Racheli a un amico giorni fa, vi proponiamo di riflettere sul fatto che il pessimismo è un difetto dei “vecchi”.
Una società dove c’è gente con animo giovane e con occhi per vedere e cervello per pensare non perirà. Se costoro non si sottrarranno al loro compito di uomini.

D’altra parte, in che epoca il mondo è mai stato migliore di oggi? Al tempo di Hitler? O durante la Rivoluzione francese o la peste a Firenze?
Le epoche storiche sono come gli esseri umani: quando sono morte diventano tutte bellissime. Oggi – si dice – è tutto insalubre, ma l’aspettativa di vita è di circa 80 anni. 50 anni fa era tutto sanissimo, ma crepavamo a 40 anni (età media nell’’800).

La giustizia va come va, ma siamo sicuri che quando funzionava, de facto et de iure, solo per i poveracci, fosse migliore? La nostra società ha i suoi mali specifici, come le altre hanno avuto i loro.
Non siamo peggio degli altri: abbiamo mali che sono veramente solo nostri.
Forse il peggiore – ed è su questo che vi invitiamo a riflettere – si chiama rassegnazione: i nostri padri hanno avuto Hitler, ma si sono fatti un dovere morale di reagire; noi abbiamo l’animo stanco e deprivato di energie.

La mentalità del “risultato” ci paralizza e dimentichiamo che il più grande risultato è essere uomini. Afferma Aristotele che la vita è un cammino verso la nostra natura e dunque dobbiamo, giorno dopo giorno, farci liberamente uomini: i gatti sono gatti per istinto, ma gli uomini no.
Farsi Uomo vuol dire interrogarsi su quello che un uomo – in quanto uomo – è chiamato a fare hic et nunc.

Dobbiamo impegnarci a riprendere insieme a tante bravissime e degne persone (o meno, poco importa) questi discorsi gettati alle ortiche da chi “sa il fatto suo”, da chi “è politico”.
Noi, a sentire loro, siamo degli inutili sciocchi “filosofi”, ma poi ci si ritrova pieni di immondizia, pieni di odi e rivalità e si scopre che la “filosofia” può essere salvifica.
Ricordate Re Lear? “Così vivremo e pregheremo e canteremo, e ci racconteremo antiche favole: sorridendo alle farfalle dorate, e ascolteremo le chiacchiere degli straccioni sulla Corte, e anche parleremo con loro di chi perde e di chi vince, e di chi c’è e di chi non c’è più, braccando così il mistero delle cose come due buoni segugi di Dio” .

Torniamo a fare cose “umane”: a braccare il mistero delle cose, a essere amici, a discutere seriamente, a criticare disinteressatamente, a meditare, ad aiutarci, a operare per chi non ha nulla.

E’ questo un “risultato”? Certamente sì. E’ un risultato in sé e per sé. E poi bonum est diffusivum sui. Il bene è diffusivo per sua natura.
Una società di uomini funziona in modo assai diverso da quello di una società di mancati- uomini.
Dunque, indigniamoci, non illudiamoci, prepariamoci al peggio, ma anche ringraziamo Dio, la vita, il caso (secondo ciò che pensiamo di chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo) per averci messo davanti a questa grande opportunità che è l’esseri vivi qui e oggi, per averci dato strumenti per capire, per amare, per gioire del bello che si annida nelle cose, e, soprattutto, rimbocchiamoci le maniche.

E’ dura. Molto. Ma, siamo sinceri, non più di quanto lo fu per tanti partigiani, di quanto lo fu per un Ghandi o un Luther King, di quanto lo fu per Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, o per Rosario Livatino e Salvatore Saetta, o per Giorgio Ambrosoli.
Bando, quindi, ai commenti rassegnati che annunciano rese e chiusure nel privato, sfiducie generalizzate e affermazioni di impossibilità.

E quanto alla domanda ricorrente sul “che fare”, da fare ce n’è tantissimo.
Nei prossimi giorni proveremo a convincervi che la condanna di Luigi De Magistris non è la “fine della storia”, ma un possibile inizio.

{mosgoogle} Nel frattempo sappiate che le dimissioni di Ilda Boccassini dall’A.N.M., di Gherardo Colombo dalla magistratura, di Stefano Racheli dal Movimento per la Giustizia non sono gesti di resa e di ritiro nel privato, ma strumenti di impegno e di lotta.
Il fatto stesso che qualcuno impieghi del tempo a leggere queste cose è un motivo di speranza e, peraltro, una responsabilità.

Aiutateci, aiutiamoci, aiutiamo.
Come diceva don Lorenzo Milani: "I care". "Io me ne curo", "a me importa", in contrapposizione allora con il motto fascista "me ne frego".

 

http://toghe.blogspot.com

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